Note critiche su "Serena e di stelle..."
Poesia di Emanuele Marcuccio
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SERENA E DI STELLE...[1]
Dolce e chiara è la notte e senza vento
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Giacomo Leopardi
da «La sera del dì di festa»
Serena e di stelle
è la notte, di cielo
e di vento che sibila in me...
e pioggia e di vento nell’anima
che fischia
al tedio che l’avvolge
e volge indietro i giorni
di quei perduti dì
che mai
si volgeranno...
16 marzo 2012
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“Serena e di stelle” che riporta in esergo una citazione tratta dalla celebre “La sera del dì di festa”: “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. [...] I versi d’apertura della notissima lirica di Leopardi sembrano aver riecheggiato nella mente di Marcuccio che, influenzato e quasi corroborato da questa potenza pacificante dei versi, ha scritto la sua “notte” connotata già dal titolo come “serena e di stelle”. Il cielo stellato è motivo di stupore per il poeta, di condivisione panteistica e di introspezione, ma è anche e soprattutto riflessione su se stesso (“il vento che sibila in me”) e una percezione di sicurezza e protezione. Le stelle, richiamate anche da Dante nella chiusa delle tre Cantiche, fungono anche da “mappa aerospaziale” e importantissima è la collocazione dei Carri per il viandante; la sera –o meglio, la notte- in questa lirica del Marcuccio si nebulizza in un “vento che sibila”, che scuote leggermente l’anima, ma che allo stesso tempo la rinfresca e la rinvigorisce permettendogli quella riconsiderazione dei passi che si è lasciato alle spalle nel suo cammino: “volge indietro i giorni/ di quei perduti dì/ che mai/ si volgeranno”. L’atmosfera è stagnante e silenziosa, se non fosse per il vento che “sibila” anche se, è un vento percepito interiormente, più che un vero e proprio spostamento d’aria e la sensazione che viene trasmessa al lettore è quella di una apatia calcificata, di un’insofferenza cronica dettata da solitudini, delusioni e “tedio che l’avvolge”.
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Lorenzo Spurio
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[1] Emanuele Marcuccio, Anima di Poesia, TraccePerLaMeta, 2014, p. 35. Già edita con il commento critico, in Lorenzo Spurio, Un infaticabile poeta palermitano d’oggi: Emanuele Marcuccio, Photocity, 2013.
Già edita in L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012), Kairòs, 2013.
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Questa lirica si potrebbe definire un “idillio interiorizzato”, dove gli elementi della natura entrano ad abitare l’animo del poeta. In questi pochi versi Marcuccio si abbandona totalmente al gioco di cogliere e riprodurre intatte le frasi poetiche, così come gli sgorgano dalla sorgente dell’ispirazione e di aggiogarle con libertà, facendo assurgere lo zeugma e l’anacoluto a raffinati strumenti espressivi. Tessuto connettivo, legante di questo poetare non sono più le concordanze sintattiche o logico-concettuali, rese labili o addirittura trasgredite senza rimpianto, ma il fluire spontaneo della musica dei versi e il loro associarsi secondo forze misteriose. Interessante, da un punto di vista metrico, scoprire la reale natura dei primi tre versi (senario, settenario, novenario) che in realtà sono due separati dalla virgola, entrambi specificanti del bel sintagma leopardiano “Serena è la notte”: un novenario ellittico reso elegante dall’anastrofe, e un vigoroso endecasillabo tronco sapientemente alleggerito dai punti di sospensione. Anche qui Marcuccio si conferma maestro nell’escogitare, spontaneamente, inedite e complesse architetture metriche.
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Luciano Domenighini
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Auspicativo: qualcuno l’ha vista “Dolce e chiara” la notte “e senza vento”. La risposta è lì, in quei pochi versi del grande poeta Giacomo Leopardi, con cui si apre «La sera del dì di festa», riposto lì è l’incipit, che apre la nostra lirica: “Serena e di stelle/ è la notte, di cielo”. S’intravede un nuovo orizzonte per l’anima e il cuore, in cui sarà senza vento la notte, e dolce. E quei giorni, al tedio, che avvolge l’anima, volti indietro, a quei perduti dì, “di quei perduti dì/ che mai/ si volgeranno…”, si schiariranno al pacificarsi dell’anima.
Ma ecco le note che movimentano la poesia stessa nel loro far intravedere l’ondosità della nostra stessa esistenza, del riposto segreto che avvolge l’anima dell’uomo: quei dì perduti che troveremo nella melanconia, nel dolcissimo amaro ricordo, nel tedio, che inteso in senso senecano, ci fa filosofare sul perché “sono io e non un altro”, sul perché “proprio a me”, mentre i fantasmi vivono la dimora di un passato che torna come l’onda alla riva. Quei giorni non torneranno più, animando, così, il nostro stesso animo, strappato all’impassibilità dello “stare”, mosso al cielo di stelle o di vento o di pioggia, all’esistere e all’essere. Sicuri che la sera arriverà al giorno, il sereno alla pioggia e al vento, e che il cielo sarà di nuovo stellato, ma nella ciclicità del ritorno. Ed Emanuele, in questa lirica ci mostra che l’alternarsi è il reale vissuto, l’alternarsi dei nostri sentimenti al sentire dell’intimo nostro io.
L’anima, ora cielo desiderante, obnubila, nei giorni perduti, il suo stesso io perché sa che il tempo trascorre portandosi via un cammino costruito in ciò che diventiamo, in ciò in cui volgeremo, aspettandoci la serena notte che avvolge gli occhi e il cuore, rincuorandoci alla fine dei giorni.
Ecco il lascito di questi versi che leggo con gran lucidità, con il medesimo contraddistinto segno malinconico, così tipico di questo autore, legandoci col pensiero a quel filo che si annoda così bene sull’ultimo accento, sull’ultimo suono di parola.
Con questi versi ci mostra che il segreto del vivere è riposto in una circolarità che non è mai banale o scontata ripetizione ma annodata, salomonica[1] circolarità psichica-emozionale: quindi, non una banale circolarità ma la circolarità che può avere un “nodo”, un “annodamento” in cui tutto si risolve sì nell’unione dei due capi ma non in maniera così “lineare” e facile. Un nodo che unisce e contemporaneamente, vincola, esprimendo un moto circolare senza soluzione di continuità, intesa anche come l’unione e il vincolo dell’uomo con la sua dimensione interiore, con la sua parte irrazionale e emotiva, in una visione in cui nessuno stato d’animo è definitivo.
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Cinzia Tianetti
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[1] Il nodo di Salomone, simbolo frequente nei pavimenti musivi dell’arte paleocristiana, esprime sia conflitto che ricongiunzione, riappacificazione, tra il terreno e il celeste.
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